Sono molte le invenzioni e le scoperte scientifiche che si devono alla serendipità, vale a dire al trovare un cosa del tutto inattesa mentre si stava cercando altro. Ed è proprio quello che è successo nell’ambito della missione Messenger della Nasa: la sonda, che ha concluso il suo mandato il 30 aprile 2015, era stata ideata per studiare Mercurio ma, durante il test di uno dei suoi strumenti, ha raccolto dati sull’atmosfera di Venere, che, a distanza di anni, si sono rivelati di grande interesse scientifico. La scoperta, effettuata da un team del Laboratorio di Fisica Applicata della Johns Hopkins University, è stata illustrata nell’articolo “Chemically distinct regions of Venus’s atmosphere revealed by measured N2 concentrations”, pubblicato ieri su Nature Astronomy.

Le informazioni raccolte per caso da Messenger presentano un improvviso incremento della concentrazione dell’azoto ad un’altezza di circa 48 chilometri dalla superficie di Venere: questo dato implica che l’atmosfera del pianeta non è mescolata in maniera omogenea, come si riteneva, e propone uno nuovo scenario. Infatti, nonostante le numerose missioni dedicate al secondo pianeta del Sistema Solare dai primi anni ’60 in poi, vi sono ancora incertezze in merito alla concentrazione dell’azoto nella sua atmosfera, soprattutto in un’area compresa tra 48 e 96 chilometri dalla superficie planetaria.

Tutto è iniziato nel giugno 2007, quando la sonda ha effettuato il suo secondo sorvolo di Venere prima di puntare su Mercurio; in quell’occasione, il team della missione ha effettuato dei test sugli strumenti per verificarne il corretto funzionamento, con particolare attenzione allo spettrometro a neutroni Grns. Questo dispositivo rileva i neutroni rilasciati nello spazio dai raggi cosmici, che entrano in collisione con le molecole della superficie di un pianeta o della sua atmosfera. Nello specifico, lo spettrometro di Messenger doveva scovare le tracce dei neutroni provenienti dagli atomi di idrogeno nelle molecole d’acqua ghiacciata presente nei crateri in ombra ai poli di Mercurio. Nel 2010 i ricercatori della Johns Hopkins hanno ripreso in mano i dati del test, riscontrando appunto l’incremento dell’azoto sopra menzionato. L’utilizzo della spettroscopia a neutroni per questo tipo di indagini era stato teorizzato nel 1962, data la capacità dell’azoto nel ‘raccogliere’ i neutroni liberi; lo strumento di Messenger, per caso, ha raccolto proprio questi dati.

Gli autori dell’articolo si sono poi messi al lavoro con simulazioni informatiche, variando la concentrazione dell’azoto nell’atmosfera di Venere, divisa per fasce. Successivamente hanno messo a confronto i risultati con i dati di Messenger, individuando lo scenario più coerente: si tratta di quello che si presenta quando l’azoto atmosferico costituisce il 5% del volume, circa 1,5 volte rispetto a quanto misurato nella parte più bassa dell’atmosfera. In questo caso, i neutroni provengono da una zona compresa tra 56 e 96 chilometri dalla superficie di Venere, proprio quella che presentava maggiori incertezze.

Nel prospettare questi risultati, il team della ricerca ha incontrato una certa resistenza nella comunità scientifica e solo nel 2016 la scoperta ha cominciato ad avere maggiore considerazione. Il motivo per cui l’azoto dell’atmosfera di Venere conosce tale incremento ad altitudini elevate non è ancora noto e richiede ulteriori studi, che potranno essere tra gli obiettivi scientifici di future missioni, come la russa Venera-D e le statunitensi Da Vinci+ e Veritas, queste ultime due ancora allo stato di proposta.

Nell’immagine in alto, il pianeta Venere fotografato dalla sonda Messenger il 5 giugno 2007 (Crediti: Nasa/Johns Hopkins Apl/Carnegie Institution of Washington).