Sono circa 190 i crateri da impatto individuati sulla Terra ma solo di pochi si conosce l’età precisa. Stabilire quando tali formazioni hanno avuto origine è fondamentale per comprendere la storia del nostro pianeta poiché gli impatti potrebbero aver avuto un ruolo significativo nel cambiamento climatico terrestre.

Quando nel 2003 è stato scoperto il cratere Yarrabubba, nell’Australia Occidentale, gli scienziati hanno ipotizzato che esso potesse appartenere ai più antichi presenti sul nostro pianeta. Il suo diametro è abbastanza ridotto, circa venti chilometri, ma gli esperti ritengono che un tempo sia stato molto più ampio, arrivando a misurare almeno settanta chilometri.

Un nuovo studio targato Nasa è riuscito a determinarne l’età precisa: Yarrabubba sembra essersi formato 2,229 miliardi di anni fa e ad oggi detiene il record di cratere meteoritico più antico conosciuto sulla Terra. Esso ha 200 milioni di anni in più rispetto al Vredefor Dome, situato in Sud Africa, che finora deteneva il primato.

Secondo lo studio, il meteorite che ha formato il cratere Yarrabubba è arrivato sul nostro pianeta durante un’era glaciale e potrebbe aver riscaldato la Terra a tal punto da porre fine a quel periodo. Studiare il cratere non è stato semplice poiché venti e piogge, nel corso del tempo, ne hanno modificato le caratteristiche.

Per determinare l’età di Yarrabubba sono stati prelevati campioni di roccia presenti attorno al sito, che, secondo gli esperti, si sarebbero fuse dopo lo shock dell’impatto per poi ricristallizzarsi nel tempo. All’interno delle rocce sono stati individuati due minerali: zirconio e monazite. I minerali ricristallizzati contengono una piccola percentuale di uranio che nel corso del tempo decade in piombo. Stabilire con precisione la quantità di uranio decaduta in piombo ha permesso agli scienziati di risalire all’età esatta dei minerali e, di conseguenza, all’età dell’impatto.

Inoltre, simulazioni computerizzate hanno mostrato che, a seguito dell’impatto, enormi quantità di ghiaccio si sarebbero sciolte rilasciando in atmosfera vapore acqueo, che potrebbe aver contribuito a riscaldare il pianeta. Solo futuri studi potranno aiutarci a comprendere meglio per quanto tempo il vapore sia rimasto in atmosfera e quali siano stati i reali effetti sul riscaldamento terrestre.

I risultati dello studio sono stati pubblicati su Nature Communications.