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Materia oscura, un candidato da pesi massimi

Quasi un quarto del nostro universo è letteralmente avvolto dall’oscurità. Secondo le più recenti stime infatti il 25.8% del cosmo è costituito da materia oscura, componente ineffabile dello spazio che può essere rilevata soltanto in maniera indiretta. A differenza della materia conosciuta, quella oscura non emette alcuna radiazione, e quindi la sua presenza è segnalata soltanto dalla sua spinta gravitazionale. Ma gli ingredienti che formano questa signora dell’oscurità restano ancora oggi un mistero.

In un nuovo articolo pubblicato su Physical Review D, due scienziati propongono ora un papabile candidato: il cosiddetto gravitino super pesante. Si tratta di una particella elementare ipotetica, di massa relativamente elevata, che rappresenterebbe il partner supersimmetrico del gravitone. La sua esistenza è stata ipotizzata cercando di spiegare come lo spettro di quark e leptoni osservato nel modello standard della fisica delle particelle potrebbe emergere da una teoria fondamentale. In base al modello standard, i mattoni principali della materia sono costituiti da sei quark e sei leptoni, raggruppati in tre famiglie.

In questo quadro, ipotizza il nuovo studio, i gravitini super pesanti sembrerebbero in grado di interagire con la materia ordinaria. E questa caratteristica, secondo i ricercatori, potrebbe essere la chiave per “svelare” la materia oscura.

«La nostra ipotesi – spiega Hermann Nicolai, direttore Max Planck Institute for Gravitational Physics di Potsdam – in realtà non produce particelle aggiuntive per la materia ordinaria, difficili da dimostrare perché non si mostrano negli esperimenti con gli acceleratori. Al contrario, la nostra ipotesi in linea di principio può spiegare esattamente ciò che vediamo, in particolare la divisione di quark e leptoni in tre famiglie».

Insieme al collega Krzysztof Meissner dell’Università di Varsavia, Nicolai ha teorizzato anche un possibile metodo per rintracciare i gravitini super pesanti, che sostanzialmente utilizza Terra come rivelatore. Nei 4,5 miliardi di vita del nostro pianeta, infatti, è probabile che ci siano state diverse interazioni con i gravitini, che potrebbero aver lasciato nelle rocce tracce di ionizzazione. «Potrebbe essere fattibile rintracciare segni di questa ionizzazione – conclude Nicolai – in alcuni cristalli in grado di restare stabili per milioni di anni».

Giulia Bonelli: Giornalista scientifica