Occhi puntati sullo stato di salute di Larsen C, la piattaforma glaciale che si estende lungo la costa orientale della Penisola Antartica, affacciandosi sul Mare di Weddell. La penisola è l’area più a nord del continente ghiacciato e questo la rende particolarmente sensibile ai cambiamenti climatici, tanto che le piattaforme Larsen A e B ne hanno pesantemente risentito: la prima ha ceduto nel 1995, mentre nel 2002 la seconda ha subito un collasso parziale, che ha portato al distacco di una sezione ampia oltre 3mila chilometri quadrati. La Larsen C, situata a sud delle due sfortunate ‘colleghe’, è tenuta particolarmente sotto controllo sia sul campo che dallo spazio, ma questo non ha potuto impedire il distacco – nel luglio 2017 – di una porzione vasta 5800 chilometri quadrati. La piattaforma è la quarta, in ordine di grandezza, tra quelle presenti nel continente antartico e l’evento traumatico di quasi due anni fa l’ha irrimediabilmente segnata, cambiando il paesaggio della penisola antartica.

Ora Larsen C torna alla ribalta per uno studio appena pubblicato su Geophysical Research Letters (articolo: “The Effect of Foehn-Induced Surface Melt on Firn Evolution over the Northeast Antarctic Peninsula”), che si è focalizzato su un insolito picco nello scioglimento superficiale, verificatosi tra il 2015 e il 2017 nei periodi di passaggio tra estate ed autunno. L’indagine è stata coordinata dall’Università del Maryland e ha visto anche il coinvolgimento del Goddard Space Flight Center della Nasa. La ricerca, che ha preso in esame un arco di tempo compreso tra il 1982 e il 2017, si è basata su una pluralità di dati: osservazioni satellitari, modelli climatici e serie meteorologiche. Esaminando le informazioni, gli autori del saggio hanno valutato quanto l’influenza delle correnti di aria calda e secca possa aver inciso sul tasso di scioglimento di Larsen C; tale vento, il foehn, proviene dalla catena montuosa che si trova al centro della penisola. Lo studio mette in rilievo che l’azione del foehn, nel triennio in cui si è verificato il picco dello scioglimento, ha iniziato a modificare la struttura del manto nevoso di Larsen C; se l’influenza negativa del vento dovesse protrarsi nel tempo, la densità e la stabilità della parte rimanente della piattaforma risulterebbero profondamente alterate con il rischio di un futuro collasso. In particolare, gli studiosi hanno notato che il soffio del foehn si è fatto sentire piuttosto tardi nella stagione dello scioglimento, quando le temperature sono in calo e si avvicinano le nevicate che dovrebbero porre un freno al fenomeno.

La crescita dello scioglimento di superficie provoca lo sgocciolio dell’acqua nel firn, lo strato di neve porosa che ricopre la piattaforma; l’acqua, ghiacciandosi, rende il firn più denso al punto da formare delle pozze sulla copertura glaciale. È quanto si vede nella foto in alto, realizzata dall’Earth Observatory della Nasa con i dati dei satelliti Landsat. Il ghiaccio di Larsen C, quindi, si presenta alla successiva stagione calda con una struttura diversa e la maggiore densità provoca un minore assorbimento dell’acqua; quest’ultima tende a scorrere via in quantità più ampie anno dopo anno, rendendo il tutto più vulnerabile. Un meccanismo del genere, secondo le teorie più accreditate, avrebbe portato al collasso Larsen A e B. Un’ulteriore frattura di Larsen C avrebbe conseguenze molto pesanti: se anche il resto della piattaforma cedesse, i ghiacciai costieri rimarrebbero ‘indifesi’ e loro tasso di scioglimento diverrebbe più veloce, provocando il temuto innalzamento del livello dei mari. A quasi 126 anni dalla sua scoperta (dicembre 1893), ad opera del capitano norvegese Carl Larsen, la piattaforma è purtroppo un’ombra dell’immensa struttura che un tempo aveva un’estensione di 85mila chilometri quadrati.